L’esordio degli esordienti (buon anno!)

Quale miglior occasione del primo dell’anno per programmare
una ripartenza! Permettetemi di condividere qualche
sensazione, non solo legata a questa indimenticabile
esperienza di Bassano.

Partiamo da una premessa. Perché mandiamo i nostri figli a
basket? Cosa vogliamo da loro e cosa vogliamo per loro? La
conosciamo bene la risposta: si devono divertire. D’accordo,
ma c’è una sfumatura più sottile. Facciamo un esempio. Perché
si va a scuola? Per divertirsi? No di certo, eppure anche a
scuola ci si può divertire. Il basket è la stessa cosa. Non
si va a basket per divertirsi, ma per imparare e se si
impara, ci si diverte.

Quando a settembre mi è stata prospettata la possibilità di
iscrivere la squadra al torneo di Bassano, ho detto
immediatamente di sì. Mi attirava una parolina che descriveva
questo torneo, un bell’aggettivo… internazionale. Sapevo
bene a cosa andavamo incontro, perché eravamo la squadretta
di paese che vuole sfidare le squadre delle capitali del
basket, ma provenire da un piccolo paese non ci deve impedire
di coltivare grandi sogni. Credo fermamente nelle capacità
dei nostri ragazzi e ho pensato che fosse l’occasione buona
per confrontarsi con i migliori. Allo stesso tempo, ho
ravvisato un problema nel gruppo, che è stato poi il motivo
principale per cui l’ho portato a Bassano. Mi spiego. C’è una
bella differenza tra il sentirsi bravi e l’esserlo per
davvero. Al geniale giocatore di scacchi americano Bobby
Fisher, in un’intervista, viene chiesto: Da piccolo ti
sentivi un bambino prodigio? No. Ma eri un bambino prodigio?
Sì! E il bello è che l’ha detto come fosse la cosa più ovvia
del mondo. Eccola la differenza: non si sentiva speciale, lo
era per davvero. Cosa voglio dire? Che quando uno si sente
bravo ha un guscio che gli impedisce di migliorare. Per
questo siamo andati a Bassano. Per un bagno di umiltà. Quindi
volevi perdere, Daniele? Per questo siamo andati là? Non
pensatelo neanche per scherzo! Odio perdere, mi dà un
fastidio che dura giorni. Chiunque si trovi nell’altra metà
campo è da sempre il mio rivale. Voglio batterlo. Ho
rispetto, ma non ho pietà. Però, appena finisce la partita,
sono il primo a sorridere e ad abbracciare l’avversario. Da
sempre, penso che sia altamente diseducativo il motto per cui
l’importante è partecipare. L’importante è vincere. Ma se si
perde, bisogna chiedersi il perché. A questo servono le
sconfitte. La sconfitta non è perdere una partita, la
sconfitta è arrendersi. Quindi, cosa ci lascia il torneo di
Bassano? L’insegnamento più prezioso: gli errori sono i
nostri più grandi maestri.

Cosa possiamo fare?
Non è necessariamente solo una questione di quantità, nel senso che alcune ore in più non cambiano le cose se non c’è anche un salto di qualità. Quindi aiutiamoci tutti a far capire ai ragazzi che occorre serietà quando si
prende un impegno, che il tempo a disposizione va sfruttato con il massimo impegno, che per divertirsi non bisogna scherzare.
Io sorrido, ma non scherzo.

Da fotografo, mi colpiscono le immagini e vorrei riviverne
alcune insieme a voi.

La prima. Quando ci siamo trasferiti da Rosà a Fellette, poco
dopo il nostro arrivo, hanno chiuso a chiave il palazzetto e
siamo rimasti tra il marciapiede e la siepe senza saper bene
cosa fare. Dopo le batoste prese nelle partite precedenti, ho
visto gli sguardi stanchi dei papà che per essere lì avevano
rinunciato a giorni di lavoro e provavano un misto di
frustrazione e scontento. Anch’io mi sono chiesto se ne
valesse la pena, ma sono state proprio quelle lunghe ore di
attesa davanti alla palestra chiusa a farci vincere la
partita del pomeriggio. Perché? Si sono formati due gruppi.
Da una parte, gli ascoltatori di musica, stravaccati gli uni
sopra agli altri, con i corpi usati come divani. Dall’altra,
i giocatori di calcio, che correvano su e giù come matti,
stancandosi all’inverosimile. Egoisticamente, ho pensato: è
giusto lasciarli stancare? Poi non corrono più alla partita.
Sì, è giusto, fanno gruppo. Credo fermamente che la vittoria
sia arrivata anche perché sono stati insieme e insieme hanno
trovato la loro cura.

Un’altra immagine. Un papà aveva dato la
disponibilità a scorrazzare avanti e indietro la comitiva, ma –
come i delfini che dormono con metà cervello alla volta
perché l’altra metà deve rimanere sveglia – mentre era con
noi veniva continuamente bersagliato da telefonate di
fornitori e clienti a cui rispondeva con continue
giustificazioni. Lo ha fatto per noi, non solo per suo
figlio. Rivolgo un ringraziamento a lui, che ho visto con i
miei occhi, e a tutti gli altri genitori, ognuno con le sue
storie di rinunce.

Un’altra immagine ancora. Un ragazzo, rimasto a lungo in
panchina, entra in campo e alla prima azione, da freddo, col
suo corpo mingherlino, si butta sul parquet per strappare un
pallone dalle mani dell’avversario. Ricordo ancora il tonfo
violento della testa sbattuta a terra. Sapeva benissimo che
non sarebbe rimasto a lungo in campo, eppure si è buttato.
Grazie, mi hai commosso.

L’immagine più commovente. Sul finale a Fellette, c’erano tre
ragazzi che avevano giocato poco pronti a entrare, ma non
sapevo chi togliere perché anche chi era in campo aveva
giocato poco, così ho chiesto direttamente a loro: “Per chi vi
cambio?”. Si sono guardati e mi hanno risposto: “No dai, lascia
loro in campo”. Mi sono dovuto voltare verso il tavolo del
referto, per non mostrarmi con le lacrime agli occhi davanti
a tutti. Grazie ragazzi, siete nel mio
cuore.

Vorrei raccontare meglio cosa è successo col famoso numero 7
di Trento, che abbiamo circondato, festeggiato e abbracciato
come fosse uno della nostra squadra. La notte prima del primo
giorno non ho chiuso occhio per l’eccitazione. Mi sono alzato
alle 4 di mattina e ho cominciato a prepararmi. Purtroppo,
poi è andata come è andata e così neanche la seconda notte ho
dormito, stavolta però per la frustrazione. Continuavo a
pensare agli aggiustamenti da apportare e così mi sono alzato
di nuovo alle 4. All’alba di quel secondo giorno,
continuavano a vedere e rivedere nella mia testa le giocate
di questo ragazzino di Trento, il più piccolo e più leggero
di tutta la squadra, che aveva lottato come un assatanato
contro i giganti della Virtus Padova. Nella partita che gli
avevo visto giocare, andava in entrata e, se sbagliava,
prendeva i rimbalzi in testa a chiunque. Così, mi è venuta
l’idea di presentarlo ai nostri ragazzi, ma non era così
facile ritrovarlo, date le tante squadre disseminate nei vari
palazzetti. Per una serie di coincidenze, a Fellette, giocano
dopo di noi proprio quelli di Trento. Come vedo il loro
allenatore, lo prendo letteralmente per un braccio e gli
chiedo se ci manda in tribuna il numero 7 prima della loro
partita. Ah, Giacomo intendi? Sì va bene, mi dice. Poco dopo,
Giacomo è tra noi e lo presento come il giocatore a cui
dobbiamo ispirarci per la grinta e la fame di vincere. Un
giocatore modello. Lui è visibilmente emozionato e mi sono
reso conto solo dopo di quanta pressione gli avevamo messo
addosso. Scende in campo e già dal riscaldamento abbiamo
tutti gli occhi puntati su di lui. Parte in sordina, con
qualche errore, ma da autentico fuoriclasse, non si abbatte,
anzi ne approfitta per studiare il gioco, gli avversari,
finché si carica sulle sue gracili spalle tutta la squadra e
la porta a vincere, coinvolgendo i compagni e creando
continue minacce agli avversari. Alla fine, incontro il padre
e mi colpisce il suo sguardo mite e quasi incredulo davanti
alle prodezze del figlio, così come quello della madre, uno
sguardo pieno di orgoglio ma completamente privo di vanità.
Che emozione vedere i nostri ragazzi con trombe e tamburi
urlare e incitare Trento come fossero i loro compagni, e poi
i nostri papà che urlavano a squarciagola “Gia-co-mo! Gia-com.o!” Ero così esaltato che mi sono fatto dare i contatti della
squadra di Trento e siamo rimasti d’accordo di andarli a
trovare un weekend per un’amichevole e una pizza insieme.
Rallegriamoci, Trento è solo a un’ora e mezza… poteva
andarci molto peggio!

Riservo le ultime righe per degli speciali ringraziamenti.
Primo tra tutti il nostro capo allenatore, che per poter
essere in panchina ha pregato i superiori di concedergli
delle ore libere e gliele hanno concesse col contagocce,
perché, come potete immaginare, nel suo lavoro chiedere certi
favori è una questione incredibilmente delicata. Quelle ore
poteva usarle per sé, invece ha scelto di usarle per noi.
Grazie Antonio. Un ringraziamento infinito a Francesca, che
se non mi avesse chiesto di aiutarla quel giorno
all’allenamento, non mi sarebbe mai venuto in mente di
allenare. Prendetevela con lei, è tutta colpa sua! E poi
grazie a Silvana, la nostra general manager, che chiamo
giorno e notte e mi risponde sempre. Voi non potete davvero
immaginare quanto si prodighi per voi, sottraendo tempo alla
cosa più importante, la sua famiglia. Infine, vorrei
ringraziare l’istruttore nazionale che sta tenendo il corso
che frequento a Vicenza, Alberto Pan, che nella sua severità
militaresca, l’altra faccia di un’umanità sconfinata, mi dà
consigli d’oro su come trattare i ragazzi, anche quando
questo significa lasciarli sbagliare, purché crescano.

Per quei temerari che sono arrivati fino alla fine, vi
ringrazio per la pazienza e vi mando l’abbraccio più
caloroso.

Daniele Scarpi